In scena fino al 24 novembre al Piccolo Eliseo di Roma, Anna Della Rosa dà corpo alla drammaturgia di Carlotta Corradi, che parte dal meraviglioso romanzo di Michela Murgia, Accabadora, per offrire una pièce che scuote l’anima, diretta dall’abilità e dalla profondità registica di Veronica Cruciani.
Quella della Corradi non è una riscrittura, ma, come afferma la stessa Murgia, un vero e proprio ampliamento del testo: parte dalla fine del romanzo e torna indietro nel racconto, spostando il punto di vista dall’accabadora, Bonaria Urrai, alla figlia adottiva Maria, ormai adulta, sul letto di morte della Tzia.
La figura affascinante e controversa dell’accabadora, colei che finisce, che accompagna alla morte, è la protagonista del romanzo della Murgia, nel personaggio di Bonaria Urrai, che sceglie di adottare l’ultima di quattro figlie di una famiglia sarda, una bambina non voluta, Maria. Si parla di adozione, si parla di eutanasia, ma si parla soprattutto di amore, quell’amore costruito con pazienza e cura, fondato sulla scelta, un legame che giorno dopo giorno si fa sempre più indissolubile.
Un legame improvvisamente spezzato dalla dolorosa verità, che spinge Maria, adolescente, a lasciare la madre adottiva e la Sardegna per partire per il continente, da cui tornerà ormai adulta, per raggiungere l’amata Tzia sul letto di morte.
E’ da qui che assistiamo alla graduale evoluzione di Maria, che, nel ripercorrere la loro storia e assistendo alla sofferenza della madre, lentamente si trasforma, fino a diventare lei stessa l’accabadora.
Bravissima Anna Della Rosa a sottolineare questa graduale sovrapposizione di ruoli, mutando in maniera naturalmente convincente l’impostazione vocale e l’atteggiamento fisico, dando anche corpo ai vari personaggi con cui si interfaccia nel racconto – elemento che conferisce non poco dinamismo alla scena pressoché vuota.
Eccezionale Veronica Cruciani nel marcare questa trasformazione nella sua costruzione registica, immediata e viscerale, simbolica ma non didascalica: proiezioni dettagliatissime, suoni e rumori disturbanti, impercettibili elementi di sovrapposizione madre/figlia già dalle prime battute.
I costumi di Maria segnano le tappe dell’evoluzione, le tappe del dolore: l’abito azzurro, puro, adolescenziale, lascia lentamente spazio a un nero sempre più preponderante, in un’opera di vestizione lenta e dolorosa. La figlia si ritrova a dover essere madre. Come la Tzia, che da ragazza vestiva di bianco e fiori, anche se la piccola Maria su di lei non ha mai visto altro che una lunga gonna nera che lasciava intravedere i piedi nudi.
Perché si porta il lutto, Tzia? Per esibire il dolore?
No Maria, per coprirlo. Perché il dolore è nudo.