Recensione | IL GABBIANO (à ma mère) al teatro Quirino con Massimo Ranieri

Cose da custodire, parole dette da altri, poi deformate nello scalpiccio del tempo: “mia madre o forse no”; a lunghi passi il figlio misura la sala, emette i vagiti di un sogno costruito su suoni elementari, nostalgici.
La voce è solenne, sembra provenire da oscurità lontane, si mischia col chiassoso sussurro della stazione.
Sagome scure, volti come spettri che urtano inquieti le pareti invisibili del proscenio; “voglio parlare di Cechov a mia madre”.

Un’aura artefatta, quasi irreale, trapela da Il Gabbiano (à ma mère) tratto dal dramma di Anton Cechov, in scena al Teatro Quirino di Roma per la regia di Giancarlo Sepe.

Se davvero il teatro è “sipario che non esiste”, la sua assoluta necessità scaturisce irruenta dai personaggi che lo abitano: Nina è attratta dal lago come un gabbiano, Macha trascina la sua vita laddove quella della madre non conosce coordinate per l’amore filiale.
Terrificante diviene lo sguardo all’interno di abissi lacunosi, profondità gorgoglianti, proiezioni vere o presunte. Ogni constatazione è falsa dentro quell’interiorità vibrante cosi cruda, cosi incubo, che tetra si nasconde dentro i personaggi.
Allora l’ispirazione è un chiodo nel cervello di Trigorin che estenuato da suo stesso desiderio, si strugge e confonde l’inchiostro con il sangue, Konstantin perennemente inquieto inseguirà un amore che a malincuore lo ripudia e lo respinge.
Se la musica si impone come valore aggiunto grazie all’interpretazione canora di un impeccabile Massimo Ranieri, essa assurge un ruolo determinante di interpellazione, esortazione, dialogo con i personaggi che sembrano così entrare ed uscire dalla nube lanuginosa di un sogno ad occhi aperti.

il gabbiano Massimo Ranieri e la compagnia.JPG

Rimaniamo increduli di fronte al tonante ribaltamento compiuto dalla parola, dal suono; come sapiente intermezzo esso si situa fra le buie increspature d’un opera celeberrima che si appella in questo caso alla straordinaria interpretazione di Caterina Vertova (nel ruolo di Irina), ma anche ad un intenso Pino Tufillaro (Boris) e alle energiche personalità sceniche di Federica Stefanelli (Nina), Martina Grilli (Mascia) e Francesco Iacopo Provenzano (Kostja).

Fino al 31 marzo un’opera che non rinuncia a lanciare nel presente la sua eco intramontabile, sospinta da forze e sguardi sempre divergenti.

 

 

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