Recensione | La forma dell’acqua

Seguendo la filmografia di Guillermo Del Toro, non stupiscono, ma ancora incantano, alcune scelte della sua ultima opera, La forma dell’acqua.
Da Il labirinto del fauno a Pacific Rim, fino a Crimson Peak, il suo cinema è sempre stato costellato da figure mostruose e affascinanti, per cui il regista messicano ha una vera, romantica, propensione.
La forma dell’acqua, super favorito alla prossima edizione degli Oscar, con tredici nomination, è una poetica favola dark, avvincente connubio tra elementi horror e sentimentali, che ruotano intorno a un’irresistibile storia d’amore tra una donna delle pulizie muta e una meravigliosa creatura tenuta prigioniera in un laboratorio.
Questa idea riporta senza dubbio alla mente innumerevoli modelli letterari e cinematografici, primo tra tutti Il mostro della laguna nera (1953), a cui Del Toro si è dichiaratamente ispirato. Il regista è riuscito a elaborare la sua favola con sfumature interessanti, originali e di una bellezza visiva disarmante.
L’avversione dell’essere umano verso ciò che è diverso e sconosciuto, la sua brama di potere, vengono inaspriti dall’ambientazione, nel cuore della guerra fredda, in cui americani e sovietici si contendono la creatura, come potenziale arma verso il nemico.
A rappresentare il potere disumano, il colonnello Strickland (Michael Shannon), che gestisce l’operazione contro la creatura nel laboratorio: è marcatamente l’evil della favola, a cui si riferiscono tutti gli elementi splatter del film.

 

Ovviamente vengono messe in discussione le comuni accezioni di “umano” e “bestiale”, in quanto le uniche forme di comprensione e tenerezza verso le creatura (interpretata da Dough Jones, presente in molti film di Del Toro) arrivano da soli quattro personaggi.
Elisa Esposito (Sally Hawkins), orfana, muta dopo la recisione delle corde vocali subita da bambina, è sempre più attratta dalla creatura, dalla sua solitudine così simile alla propria. Prova a liberarla dalla prigionia, aiutata da tre persone: il suo amico Giles (Richard Jenkins), insicuro omosessuale di mezza età che ha perso il lavoro in seguito a problemi di alcol, la collega Zelda (Octavia Spencer), rassegnata a un matrimonio privo di dialogo, e il dottor Hoffstetler (Michael Stuhlbarg), spia russa infiltrata nel laboratorio americano, che si ritroverà braccato da entrambe le fazioni per aver aiutato la creatura.
La struttura di questi personaggi, la loro remissiva solitudine, conferisce loro una profonda dolcezza, specialmente per quanto riguarda l’amicizia tra Elisa e Giles, e l’amore tra la donna e il mostro.
Un amore puro tra due esseri che non hanno parole per comunicare, ma che condividono lo stesso linguaggio e la stessa emarginazione dal resto del mondo, che si considera “normale”.
Un amore che non rinuncia alla sensualità, ma che esce dai confini della favola per lasciar spazio a una carnalità dirompente seppur estremamente delicata.
L’acqua accompagna poeticamente tutte le fasi vitali ed erotiche dei personaggi: l’acqua è l’elemento naturale della creatura; è nella vasca da bagno che Elisa compie il suo quotidiano rituale di masturbazione; è facendo cadere un bicchiere d’acqua che il colonnello Strickland trova il pretesto per fare le sue avances ad Elisa; è con l’acqua che le donne delle pulizie, Elisa e Zelda, cancellano ciò che di misterioso accade nel laboratorio.

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