Continua a far parlare di sé Gatta Cenerentola, il film d’animazione diretto da Alessandro Rak, Ivan Cappiello, Marino Guarnieri e Dario Sansone e prodotto da Luciano Stella e la sua factory, la Mad Entertainment. Presentato all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, non ha fatto che collezionare ottimi riscontri di pubblico e critica, riuscendo a valicare il confine italiano con numerosi riconoscimenti internazionali, fino ad entrare nella rosa dei possibili candidati agli Oscar.
L’ispirazione nasce da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile (recentemente rivisitato dal film di Matteo Garrone), e in particolare dal suo racconto La gatta Cenerentola, da cui il regista Roberto De Simone trasse una fortunata versione teatrale nel 1976.
La vicenda, immersa già in origine nei luoghi e nelle atmosfere campane, viene trasportata in un possibile futuro non troppo lontano. Il ricco armatore e scienziato Vittorio Basile (Mariano Rigillo) diventa famoso per la sua invenzione: grazie a una sofisticata tecnologia, la sua nave, la Megaride, è in grado di registrare qualsiasi evento accada al suo interno e di riprodurlo nel tempo attraverso ologrammi. Questa sensazionale invenzione potrà trasformare il porto di Napoli in un grande polo tecnologico che ridarà lustro alla città.
Basile, già padre della piccola Mia, sta per sposare Angelica (Maria Pia Calzone),
ma Salvatore Lo Giusto (Massimiliano Gallo), detto ‘O Re, trafficante di droga e amante della donna, fa uccidere Basile subito dopo la celebrazione del matrimonio. Mia, che da quel giorno smette di parlare, viene cresciuta dalla matrigna fino ai diciotto anni, età in cui potrà firmare il documento che concederà l’usufrutto della Megaride a Lo Giusto.
Risulta davvero affascinante la commistione tra il racconto originale e la favola moderna in cui si incastra: Mia cresce come una Cenerentola contemporanea e dark, si muove silenziosa come una gatta, mentre la matrigna trasforma la Megaride in un bordello, in cui lavorano le sue sei figlie, tra cui un transessuale; ‘O Re, invece, nasconde il suo traffico di droga attraverso il commercio di scarpe di cristallo.
Gatta Cenerentola rappresenta un lavoro interessante e innovativo nel panorama cinematografico italiano, nato dalla collaborazione di una piccola squadra di professionisti che già aveva dato vita, nel 2013, a un altro interessante prodotto, L’Arte della Felicità.
I due film, pur essendo molto distanti tra loro, presentano dei punti di contatto interessanti.
Prima di tutto la contestualizzazione all’interno della capitale partenopea, di cui i registi sono originari.
In L’Arte della Felicità Napoli è una cornice presente ma non preponderante. La sua pioggia incessante e l’assenza costante di luce sembrano rappresentare lo stato d’animo del protagonista, Sergio, sconvolto da un lutto che non riesce a elaborare. Napoli è presente in alcuni dialoghi, in piccole inflessioni dialettali, ma ciò che più risalta in questo primo film è l’intimità del dolore, la forte componente spirituale – l’altro luogo del film è il Tibet, dove andrà a morire il fratello di Sergio, Alfredo.
La Napoli di Gatta Cenerentola ha tutt’altro ruolo.
Anche qui il cielo non è mai sgombro, ma non è la pioggia a riempire l’aria; sono gli scarti degli inceneritori che rilasciano un costante pulviscolo. E’ continuo il riferimento all’odore di Napoli, al suo stato d’abbandono, alla sua lingua e, ancor più fortemente, alla sua criminalità.
Ma questa immagine di Napoli non riesce a essere polemica.
C’è del sarcasmo profondamente romantico nel ritratto di questa città, che si manifesta in particolare nel personaggio di Salvatore Lo Giusto, il vero protagonista del film. Come il malavitoso, O’Re, uccide Vittorio Basile, così Napoli si abbandona al degrado oscurando qualsiasi possibilità che potrebbe portare luce alla sua ricca cultura e alla sua bellezza senza tempo.
Fondamentale è il ruolo della musica: in entrambi i film la colonna sonora è curata da Antonio Fresa e Luigi Scialdone, con presenze musicali sempre ricorrenti, da Foja e Guappecartò alle voci di Ilaria Graziano e Francesco Forni.
Le canzoni e i ritmi sono pervasi da una forte componente partenopea, creando, in entrambi i film, un’interessante connubio tra sonorità differenti.
L’esibizione musicale è dunque presente in tutti e due i film: in Gatta Cenerentola il palcoscenico è il luogo dove o’Re manifesta la sua grandezza e canta l’omaggio alla sua città; ne L’Arte della Felicità, il palco è invece legato al passato, al ricordo dei due fratelli musicisti, divisi dalla morte.
In una delle sequenze più toccanti, Sergio, in sogno, siede al suo piano, incastonato tra le radici di un enorme albero e, immerso tra i suoni della natura e la calda luce del sole, inizia a suonare, mentre la familiare melodia di un violino, presente, anche se non alla vista, lo accompagna dolcemente – quindi anche la musica ha il ruolo, qui, di esaltare la componente intimistica e romantica del film.
La squadra di animatori sta dunque costruendo una propria identità registica sempre più definita e riconoscibile, che segna una svolta nell’ambito dell’animazione italiana, non certo uno dei generi caratterizzanti del cinema nostrano, finora, ma che grazie a loro inizia a richiamare l’attenzione del pubblico.
Un’animazione che si discosta dalle rassicuranti ispirazioni disneyane prediligendo, volendo cercare un riferimento, i modelli orientali dello Studio Gibli di Miyazaki: si rivolge a un target di pubblico adulto, affronta tematiche importanti e attuali, ma gli conferisce un tono del tutto italiano, con un linguaggio che si fa spesso violento e una grafica accuratamente ricercata, che parte da modelli tridimensionali per applicare, poi, un processo di bidimensionalizzazione dell’immagine.
Andando, dunque, in direzione completamente opposta rispetto al percorso consueto dell’animazione che oggi cerca di avvalersi il più possibile della tridimensionalità, qui si torna al disegno puro, spogliato dall’impronta della tecnologia e arricchito dalla percezione artistica dei suoi creatori.