Il cinema racconta se stesso: Singin’in the Rain e The Artist nell’incontro/scontro tra immagine e parola

Il cinema che rivela la sua storia. Nel suo momento più grande. Quando grandi scoperte e innovazioni trasformano per sempre la sorte della settima arte e dei suoi divi. Il passaggio al sonoro farà emergere nuove promesse del cinema, ma porterà alla rovina molti dei grandi attori del muto. La voce, nonostante la fredda accoglienza, irromperà nelle sale di proiezione, suscitando indubbiamente scalpore, ma soprattutto quel senso di magia che il cinema ha sempre saputo suscitare; un qualcosa di impensabile, di geniale, che finirà per rendere ridicole e obsolete le  pantomime di chi poteva servirsi solo del proprio volto per esprimersi.

Nel 1927, dopo il successo di The Jazz Singer (1), inizia una nuova epoca per il cinematografo, grazie all’introduzione del sonoro: a sessant’anni di distanza tra loro, Singin’in the Rain e The Artist segnano la storia del cinema affrontando questo tema. Nel film di Gene Kelly e Stanley Donen, del 1952, troviamo un esempio portante del musical, basato sul rapporto tra arte e intrattenimento, che nasce negli anni ’30, proprio grazie all’avvento del sonoro. Negli anni della Depressione sono molteplici i musical che invadono le sale cinematografiche, per assecondare il bisogno di evasione del pubblico, ma la maturità di questo genere arriva sicuramente negli anni ‘50, grazie all’uso significativo del Technicolor e all’affinamento delle tecniche di registrazione del suono – su traccia metallica e non più ottica -, permettendo una resa migliore in fase d’ascolto: il cinema, dunque, deve continuamente reinventare se stesso, particolarmente in quegli anni, per mantenere la superiorità sull’emergente e minaccioso fenomeno televisivo; l’immagine deve essere spettacolare e autonoma dal linguaggio verbale. Notiamo, dunque, come il carattere stilistico del film, entri in conflitto con i temi affrontati nella vicenda: un’opera che vuole sottolineare iconograficamente la spettacolarità dell’immagine mostra il cinema nel momento in cui la voce dell’attore e la parola prendevano il sopravvento sulla mimica del performer e sull’immagine stessa. Questo contrasto è, quindi, funzionale ad evidenziare il continuo sviluppo tecnologico del cinema attraverso la celebrazione del suo passato, della sua storia, delle sue fondamenta.

 

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Per quanto riguarda il pluripremiato The Artist, troviamo una situazione in parte differente: il cinema del 2012 racconta la fine degli anni ‘20 attraverso uno stile tipico di quell’epoca. Al pubblico odierno, abituato alla supremazia della parola, come conditio sine qua non del film, viene mostrata la più grande innovazione della storia del cinema, con i mezzi di quegli anni. Non sono solo le proiezioni dei film di George Valentin a essere mute e in bianco e nero, ma quasi la totalità del film del francese Michel Hazanavicius (2): il muto invade la vita “reale” e quotidiana dei personaggi, come anche i film sonori di Peppy. Per capire la grandezza di una tale invenzione, il pubblico di oggi deve conoscere il cinema di ieri, vivere quella condizione in cui ci si affidava esclusivamente al dominio dell’immagine. Infatti, il pubblico rimane stordito quanto George nel sentire quei rumori sempre più minacciosi che perseguitano il protagonista nel suo incubo: è circondato da suoni di ogni tipo, ma lui non riesce a parlare, non può – non vuole – adattarsi al nuovo che irrompe violentemente. Come nel film del ’52, dunque, anche qui troviamo un ritorno all’immagine, ma con scopi e modalità differenti. In The Artist il cinema non si serve del passato per sottolineare la sua attuale grandezza, ma si spoglia dei suoi artifici, dei suoi effetti speciali, per catapultare completamente lo spettatore in un’altra epoca, non solo a livello diegetico, ma, soprattutto, a livello stilistico. Infatti, come afferma il regista Hazanavicius, l’idea originaria era la celebrazione del cinema muto, specialmente dei film più complessi e articolati nati verso la fine degli anni ’20, come le opere del tedesco Murnau; il plot nasce in un secondo momento, esclusivamente per dare coerenza alla scelta stilistica.

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Addentrandoci nell’analisi diegetica dei due film, possiamo riscontrare alcune somiglianze e significative discrepanze. L’approccio al sonoro è affrontato in modi molto diversi dai due protagonisti, Don Lockwood e George Valentin. Il primo elemento evidente è la forte somiglianza tra i due interpreti, nella fisicità quanto nell’atteggiamento ammiccante, caratteristico degli attori di quei tempi, quando l’utilizzo del primo piano assecondò la nascita del divismo. Gene Kelly è stato, probabilmente, uno dei modelli principali per Jean Dujardin, oltre a Douglas Fairbanks, come l’attore francese ha dichiarato (3). Don Lokwood e George Valentin, dunque, sono entrambi star del muto amate dal pubblico, ma se Don, dopo uno sconforto iniziale, cerca con esuberanza di adattarsi al sopravvento del sonoro grazie alla commedia musicale, dall’altra parte, George non cede al suo orgoglio, e il suo fermo rifiuto del sonoro presto lo porterà alla rovina. Anche per lui la commedia musicale sarà una soluzione, un punto d’incontro tra il muto e il sonoro, tra il vecchio e il nuovo, ma solo grazie all’aiuto costante e tenace di Peppy. Quindi, nonostante il fattore estetico e visivo, dal punto di vista dell’azione, il personaggio di Valentin risulta sicuramente più articolato e contrastato, in quanto, nel corso della vicenda, affronterà un difficile percorso di cambiamento, in risposta all’ambiente che lo circonda, anch’esso in continua evoluzione. Il suo crollo è accentuato dall’ascesa della giovane Peppy, proprio come il muto verrà soppiantato dal sonoro. Lockwood, in questo senso, è sicuramente un personaggio lineare, la sua risposta alla nuova condizione del cinema è affrontata con slancio e fiducia. Lo spessore psicologico dei personaggi, in The Artist, è certamente dovuto alla situazione patetica, completamente assente in Singin’in the Rain. Nel film del 2012 viene mostrato il vero e proprio fallimento di una star, dovuto alla perdita della fama e accentuato dal crollo della borsa di New York, che lo vede costretto a mettere all’asta tutti i suoi beni. L’avvento del sonoro è affrontato in modo drammatico, rispecchiando la situazione di star del muto che non riuscirono a mantenere il successo, come il già citato Fairbanks. La devastazione di Valentin è sottolineata angosciosamente dalla musica e soprattutto dalla fotografia, in modo sempre crescente fino ad arrivare alla sequenza dell’incendio, in cui distruggerà la maggior parte delle sue pellicole, e all’ultimo tentativo di suicidio, dove, nuovamente, verrà salvato da Peppy e riportato alla vita, con l’immancabile lieto fine.

Per quanto riguarda Singin’in the Rain, invece, abbiamo già sottolineato come il musical nasca per assicurare l’intrattenimento e una sorta di evasione per il pubblico, grazie a numeri musicali e azioni performative atte a sorprendere lo spettatore: la componente drammatica è quindi assente, fino alla fine degli anni ’50, in cui si acquisisce il fattore tragico che rende il lieto fine assolutamente incerto (4). In questo caso, quindi, la stessa tematica è affrontata in modo ironico, non tanto soffermandosi sulla componente psicologica dei personaggi, ma quanto sull’aspetto tecnico della nuova evoluzione cinematografica: è assolutamente divertente la sequenza in cui il regista del film con Lockwood e Lina Lamont cerca disperatamente di utilizzare in modo corretto il microfono, senza riuscirci, come verrà mostrato in seguito, con la proiezione del film. L’ironia è quindi fondamentale per descrivere le reali difficoltà portate dal sonoro: i primi microfoni non erano direzionali e captavano qualsiasi rumore; erano poco sensibili, quindi gli attori dovevano prendere lezioni di dizione e parlare lentamente (5). Anche qui si assiste al crollo di una diva del cinema muto, ma nuovamente in una visione ironica, grazie a Lina Lamont, la partner artistica di Don, che ricopre il ruolo da antagonista, un’attrice incapace arrivata al successo grazie al suo bell’aspetto, ma dalla voce totalmente insopportabile: lei rappresenta l’elemento villain che va punito, l’immagine che deve soccombere alla voce, quella di Kathy, che la doppierà nel suo film.

Concentrandoci, infine, sulle due protagoniste femminili, notiamo come siano accomunate da diversi fattori: entrambe si avvicinano al mondo dello spettacolo quando il personaggio maschile è all’apice della carriera: si presentano al pubblico come ammiratrici dei due attori, per poi continuare come ballerine e comparse. Peppy (Bérénice Bejo) diventerà una grande star del sonoro, oscurando il mito del passato, Valentin; Kathy (Debbie Reynolds), per amore di Don, metterà in secondo piano la sua carriera, restando nell’ombra e prestando la sua voce alla diva Lina Lamont. Nel finale, però, la sua identità verrà svelata e le porte del successo si apriranno anche per lei, al fianco di Don. Nello stesso modo anche George e Peppy lavoreranno insieme, in un nuovo film musicale, che confermerà il successo della donna e riporterà sul grande schermo il mito Valentin, oltre a dare inizio, molto probabilmente, a una storia d’amore tra i due.

 

Note:
(1) Film di Alan Crosland  che segnò il passaggio al sonoro. La maggior parte delle sequenze aveva solo un accompagnamento musicale, ma in quattro scene Al Jonson, la star del vaudeville, cantava e pronunciava qualche parola: “You ain’t heard nothin’ yet”. Dopo qualche pellicola parzialmente sonora, il primo film interamente sonoro fu The Lights of New York, di Bryan Foy, nel 1928. Nel 1932 si completò la diffusione del sonoro negli USA. D. Bordwell e K. Thompson,Storia del cinema e dei film, Il Castoro, Milano, 1998.
(2) Gli unici elementi moderni riguardano il breve utilizzo del suono diegetico, nel sogno di George e nel finale, quando la strada inizia ad aprirsi verso il futuro; al contrario il suono over accompagna tutta l’opera, grazie alla colonna sonora curata da Ludovic Bource, che introduce anche un riferimento a Hitchcock grazie ad alcune note tratte da Vertigo.
(3) Douglas Fairbanks, tra i fondatori della United Artist, divenne uno dei più amati attori degli anni venti, principalmente grazie alle sue interpretazioni nei film di cappa e spada; la sua notorietà declinò con l’avvento del sonoro.
(4) È il caso di West Side Story, del 1961, che segna definitivamente il distacco dal musical classico.
(5) Uno dei momenti più spettacolari del film è rappresentato dal brano Moses Supposes, “improvvisato” da Lockwood e il suo amico Cosmo Brown, proprio durante una lezione di dizione.

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